Il cosiddetto Movimento irlandese contro la guerra è solo un esempio tra molti. La linea di pensiero comune si basa sulla stessa falsificazione e/o inganno sulla natura del disastro in corso nel Medio Oriente. Per meglio dire, la questione principale è la risposta ad una domanda molto semplice: di chi è questa guerra?
Permettetemi di citare un altro esempio di come questa falsificazione e/o inganno viene offerta da ben noti accademici "di sinistra". Questo è Gilbert Achcar che parla con il giornale libanese Al Akhbar:
"Cosa vogliono gli USA dalle rivoluzioni arabe? Sono in coda al treno, a bordo, o davanti"?
"GA: certamente gli Stati Uniti non sono davanti al treno. Washington ed il suo alleato, lo stato sionista, erano e continuano ad essere eccessivamente preoccupati per i cambiamenti nel mondo arabo. Sappiamo dalla stampa israeliana che si preoccupano perfino per il regime siriano, perché almeno garantisce una certa stabilità. Tuttavia, gli USA non erano del tutto sorpresi da quanto accaduto". [10]
Eccone un altro, Alex Callinicos del Partito Socialista dei Lavoratori, che critica l'analisi di Tariq Ali sulla situazione siriana come una "ricolonizzazione":
"L'idea che la Siria stia venendo "ricolonizzata" implica che eliminare il regime di Assad era una priorità occidentale già da molto tempo. Ma non c'è prova di ciò. Sotto il padre di Bashar, Hafez, lo stato siriano si impose come gestore del capitalismo, brutale ma fidato." [11]
Continua notando che, nonostante l'"esplosione" in Siria abbia incoraggiato gli oppositori regionali ed occidentali al regime siriano, le possibilità dell'invio di truppe e perfino la copertura aerea ai "ribelli" sono remote. Poi si giunge alla seguente conclusione:
"La lotta ha tutte le caratteristiche di una sollevazione armata estemporanea e disperata. Possiamo discutere se fosse conveniente politicamente per i ribelli militarizzare tanto presto la lotta. Possiamo dispiacerci dell'assenza dell'azione indipendente della classe lavoratrice che è stata tanto importante nella rivoluzione egiziana."
"Ma la forma in cui la sua omologa siriana si è sviluppata tanto rapidamente in guerra civile non cambia il fatto che le sue radici si trovano nella rivolta popolare". [12]
Un altro esempio, questa volta dall'altro lato dell'Atlantico.... E' Immanuel Wallerstein che parla:
"Tuttavia, io non credo che fra un anno o due ci troveremo senza Assad o con il regime profondamente cambiato. La ragione è che chi sta accusandolo in modo più forte, in realtà, non vuole che vada via."
"Sì, gli israeliani continuano ad essere ossessionati dall'Iran. E sì, la Siria baathista continua ad essere un potere amico dell'Iran. Ma in fin dei conti, la Siria è stata un vicino arabo relativamente tranquillo, un'isola di stabilità per gli israeliani. Sì, i siriani aiutano Hezbollah, ma anche Hezbollah è stato relativamente tranquillo. Perché gli israeliani correrebbero il rischio di una turbolenta Siria post-baathista? Chi dopo eserciterà il potere, non vorrà accreditarsi ancora di più espandendo la jihad contro Israele? La caduta di Assad non porterebbe a turbare la relativa calma e stabilità di cui ora il Libano sembra godere e questo non finirebbe per rinvigorire un rinnovato radicalismo di Hezbollah? Israele ha molto da perdere e non molto guadagnare dalla caduta di Assad".
(…)
"Ma non è esattamente quello il motivo per cui Obama ed i suoi consiglieri non vedono buone possibilità? Furono trascinati dentro l'operazione libica. Gli USA non hanno perso molte vite, ma come risultato hanno ottenuto un reale vantaggio geopolitico? È qualcosa di meglio il nuovo regime libico, se si può dire che c'è un nuovo regime libico, o è il principio di una lunga instabilità interna, come in Iraq "?
"Allora, quando la Russia pose il veto alla risoluzione dell'ONU sulla Siria, posso immaginare un sospiro di sollievo a Washington. La pressione per dare inizio ad un intervento come in Libia era saltata. Obama era protetto dall'insistenza repubblicana sulla Siria dal veto russo. E Susan Rice, l'ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, poté dare tutta la colpa ai russi. Erano "ripugnanti", disse così, diplomaticamente". [13]
Dopo avere letto queste dichiarazioni, ritorniamo alla domanda originale: di chi è questa guerra?
Secondo questi accademici "di sinistra", non è assolutamente la guerra dell'imperialismo. Secondo Achcar, la migliore descrizione di quanto sta accadendo è un "processo rivoluzionario". Secondo il suo collega Callinicos, è una "rivoluzione" con radici nel sollevamento popolare. Secondo i tre (e in realtà per molti altri nel mondo accademico occidentale), ci sono discrete aperture per il futuro prossimo e l'imperialismo sta semplicemente tentando di portare il processo sotto il suo controllo.
Pertanto la formula di questi signori è questa: non date credito alla "retorica antimperialista" della sinistra; non date credito agli "orientalisti" e "islamofobi" che si lamentano degli estremisti islamici, i salafiti, Al Qaeda ecc; appoggiate la "rivoluzione", poiché trae origine da cause popolari malgrado non sia diretta da una genuina forza di classe.
Esaminiamo brevemente questa formulazione:
1. È semplicemente retorica antimperialista superficiale?
Quali fattori occorre cercare per capire se un processo in corso si adatta agli interessi dell'imperialismo, pertanto manipolato ed orientato dai centri imperialisti? Probabilmente, in primo luogo, va accertato se le reazioni, su una chiara base di classe, all'imperialismo e alla dominazione capitalista si stanno intensificando oppure no. In seguito, si verifica lo stato delle forze posizionate contro gli interessi dell'imperialismo per ragioni contingenti e politiche. Insieme a questo, si deve verificare come le alleanze e le strutture di collaborazione dell'imperialismo si stiano trasformando.
In considerazione di questi tre criteri, cosa vediamo puntando l'attenzione sugli avvenimenti nel Medio Oriente degli ultimi due anni?
Possiamo affermare che i lavoratori della regione stiano portando a termine una guerra più cosciente, massiccia e più forte contro l'imperialismo e le potenze del capitalismo? Per meglio dire, possiamo dire che i lavoratori di Egitto, Tunisia, Libia, Siria, ecc., dopo tutti questi avvenimenti, sono ora più vicini a diventare una classe cosciente di sé? Benché si possano citare vari risultati parziali in Tunisia ed Egitto, nessuno può dare una risposta soddisfacente alla domanda di come il rovesciamento dei regimi dittatoriali possa retroagire positivamente sull'organizzazione della classe operaia e delle lotte, anche in questi due paesi. Al contrario, si osserva che in questi paesi le norme borghesi sono state "restaurate", conservando lo scheletro degli antichi regimi. Nella regione ora abbiamo nuovi ordini capitalisti con maggiori vantaggi. Ora hanno più vantaggi poiché i principali media occidentali, i serbatoi di pensiero, ecc., con la partecipazione degli intellettuali "di sinistra", hanno concesso loro l'etichetta di "rivoluzionari". Come abbiamo sottolineato in un opuscolo edito recentemente [14], qualunque forza politica che prenda il potere con una rivoluzione sociale è legittima. Cosicché è concessa loro una grande legittimità da tutti gli apparati delle potenze occidentali. Pertanto, ora abbiamo poteri politici borghesi che sono sostenuti dalle basi popolari delle organizzazioni islamiste ed attrezzate degli strumenti ideologici dell'islamismo sia per dominare le proprie classi lavoratrici, sia per perseguire i propri scopi rispetto ai popoli della regione.
Dunque, quali sono le implicazioni di questi rinnovati poteri borghesi dal punto di vista delle alleanze e delle strutture di collaborazione dell'imperialismo nella regione? Gli intellettuali "di sinistra" che affermano che Israele non gradisce gli avvenimenti nella regione, si accorgono che lo stesso Israele, dopo trenta anni, sta accelerando le sue operazioni militari (ufficiali) nella penisola del Sinai come segno del suo "malcontento"? O è solo un riflesso del gran vuoto aperto davanti a Israele, nel quale sta ora manovrando? È tanto difficile comprendere che, dopo questi avvenimenti, Israele ha colto l'opportunità di fare a pezzi la struttura di alleanze dell'Iran, situazione che neanche si poteva immaginare due anni fa? D'altra parte, non significa niente quando i funzionari dello stato sionista fanno dichiarazioni sulle presunte armi chimiche del regime siriano e le usano come pretesto per un possibile intervento? Non significa niente quando minacciano Siria, Libano e Iran di un intervento militare senza quasi nessuna reazione contraria dal resto del mondo?
Diamo un'occhiata alla Turchia.... Sì, il governo dell'AKP (Partito di Giustizia e Sviluppo) è stato bellicista a tal punto da far saltare i nervi all'amministrazione USA prima delle elezioni presidenziali. È rilevante anche che abbia assunto rischi non calcolati, come si vede dagli sviluppi nella regione curda della Siria e dalle tensioni crescenti tra la popolazione alauita della Turchia. Tuttavia, chiunque abbia una minima idea della Turchia può vedere che questo governo è convinto che i suoi deliri neo-ottomani, sui quali ha investito gran parte dell'ultimo decennio, abbiano finalmente l'opportunità di divenire realtà con la cosiddetta "Primavera araba". Il governo dell'AKP non è preoccupato per gli avvenimenti nella regione, ma è preoccupato dei possibili ostacoli al ruolo che vuole giocare. Coloro che acclamavano Erdogan due anni fa per la sua "posizione contro l'Israele" dovrebbero pensare a come lo stesso Erdogan si sia trasformato in figura politica che ordisce "piani operativi" contro la Siria insieme ai suoi alleati della NATO.
2. Chi è orientalista?
In Tunisia ed Egitto, la Fratellanza Musulmana ha preso il potere. In Libia, una più larga e complessa coalizione di islamisti ha preso il potere. In Siria, la forza politica più vicina a prendere il potere politico è anch'essa islamista. È certo che, in alcuni di questi paesi, le organizzazioni islamiste hanno una forte base popolare, in larga misura di carattere plebeo, povero e popolare. Tuttavia, i nostri intellettuali "di sinistra" che celebrano la vittoria degli islamisti sembrano dimenticare che il movimento islamista, come attore politico in questi territori, è stato anche parte dell'antico status quo. Pertanto, la seguente logica è la stessa logica dell'orientalismo: gli islamisti non hanno mai preso il potere in Egitto, Tunisia, Siria o Libia, ma hanno un appoggio di massa e per questo hanno assunto la rappresentanza degli oppressi. È una visione orientalista poiché ritrae il Medio Oriente dal punto di vista straniero, sulla base di presunzioni e pregiudizi. Si tratta di un'immagine, di una costruzione mentale della geografia politica della regione, poiché il movimento islamista è stato una componente della struttura di potere e delle ideologie ufficiali della regione in molti frangenti, solo che le stesse organizzazioni islamiste non erano giunte al potere prima degli ultimi due anni.
Un'altra conseguenza dell'orientalismo puro è classificare tutta l'eredità dell'illuminismo nel Medio Oriente come esterna, aliena, come qualcosa di imposto dai regimi dispotici. Tuttavia, questa area geografica ha una profonda tradizione di movimento di classe, un patrimonio di lotta antimperialista, anticolonialista, antisionista. La credenza che in Medio Oriente i poteri popolari possano essere costruiti solo da forze islamiste è puro orientalismo.
Pertanto, l'idea che la sconfitta del movimento operaio, ancora prima di avere creato una vera rappresentanza ed organizzazione dei propri interessi, sia abbastanza normale per quest'area è ancora un altro riflesso della visione orientalista. Essa suppone implicitamente che le forze della classe operaia nel Medio Oriente possano essere solo una componente della "lotta popolare democratica" contro le dittature, il neoliberismo, ecc. Pertanto, si giudica sufficiente etichettare questi processi come "movimenti del lavoro" ed i cambiamenti di regime come "rivoluzione", solo perché le masse lavoratrici hanno partecipato a tali azioni. Tuttavia, neanche i movimenti puramente borghesi potrebbero compiere una restaurazione su tale scala senza assicurarsi in una certa misura la partecipazione e l'appoggio delle masse lavoratrici.
3. Ci può essere rivoluzione della classe operaia senza organizzazione operaia?
Ai fini pratici, il seguente è un caso strano da difendere: certi intellettuali occidentali "di sinistra", del genere di Achcar, Wallerstein e Callinicos, parlano di "rivoluzione", "processo rivoluzionario" o "sollevazione popolare". Tuttavia, non ci sono indizi reali che mostrino che l'organizzazione della classe operaia si sia maggiormente sviluppata dove si è prodotto un cambio di regime. Allora, su quali basi si definiscono questi avvenimenti come una "rivoluzione", quando la classe operaia non è potuta avanzare nel livello di organizzazione economica e politica, e men che meno prendere il potere politico?
Un'altro problema è che non si fa una distinzione qualitativa tra gli avvenimenti in Tunisia ed Egitto e quelli accaduti dopo. Le grandi masse hanno partecipato agli eventi in Tunisia ed Egitto. Tuttavia, in Libia non si può parlare di un "movimento popolare", né all'inizio, né alla fine del processo. C'è stata solo un'operazione ben progettata, portata a termine dalle potenze imperialiste e dai loro complici.
Anche in Siria è difficile dire da che parte sta "l'appoggio popolare". È sufficiente guardare i rappresentanti della cosiddetta "opposizione siriana" per vedere quest'ambiguità lampante: ex ufficiali dell'esercito di Assad; jihadisti che hanno combattuto in Iraq, Afghanistan, Libia, ecc; Fratelli Musulmani, la cui base popolare è molto più ristretta in paragone ai loro omologhi egiziani; ex diplomatici, accademici, politici, ecc, che in maggioranza risiedono nei paesi occidentali... Costoro sono quelli che rappresentano la cosiddetta opposizione siriana in generale.
D'altra parte, da marzo 2011 abbiamo visto molte manifestazioni popolari a sostegno del regime baathista, il cui carattere di massa non può essere negato dai mezzi di comunicazione occidentali. E' praticamente di dominio pubblico che gli alauiti, i cristiani, la maggioranza dei curdi, perfino la maggioranza dei sunniti poveri che vivono nella periferia di Aleppo e Damasco, non appoggiano i "ribelli".
Ovviamente, questi fatti non "dimostrano" che questi settori della popolazione siriana appoggino indiscutibilmente Bashar al-Assad. Questa è un'altra prova di come la cosiddetta "sollevazione popolare" abbia minato la possibilità di sviluppo di un vero movimento di massa contro il regime baathista. La maggioranza del popolo siriano si sente ora obbligata a schierarsi con lui a causa della guerra sporca intrapresa dalle potenze occidentali contro il loro paese ed il loro futuro. Allora, che tipo di sollevazione "popolare" è questa?