Gramsci spiega egregiamente la situazione del movimento operaio, storicamente determinatasi in Italia, nelle cosiddette “Tesi di Lione”, approvate al III° Congresso del PCdI, tenutosi clandestinamente a Lione nel gennaio 1926: «In Italia le origini e le vicende del movimento operaio furono tali che non si costituì mai, prima della guerra, una corrente di sinistra marxista che avesse un carattere di permanenza e di continuità. Il carattere originario del movimento operaio italiano fu molto confuso; vi confluirono tendenze diverse, dall'idealismo mazziniano al generico umanitarismo dei cooperatori e dei fautori della mutualità e al bakuninismo, il quale sosteneva che esistevano in Italia, anche prima di uno sviluppo del capitalismo, le condizioni per passare immediatamente al socialismo.
La tarda origine e la debolezza dell'industrialismo fecero mancare l'elemento chiarificatore dato dalla esistenza di un forte proletariato, ed ebbero come conseguenza che anche la scissione degli anarchici dai socialisti si ebbe con un ritardo di una ventina di anni (1892, Congresso di Genova).
Nel Partito socialista italiano come uscí dal Congresso di Genova due erano le correnti dominanti. Da una parte vi era un gruppo di intellettuali che non rappresentavano piú della tendenza a una riforma democratica dello Stato: il loro marxismo non andava oltre il proposito di suscitare e organizzare le forze del proletariato per farle servire alla istaurazione della democrazia (Turati, Bissolati, ecc.). Dall'altra un gruppo piú direttamente collegato con il movimento proletario, rappresentante una tendenza operaia, ma sfornito di qualsiasi adeguata coscienza teorica (Lazzari). Fino al '900 il partito non si propose altri fini che di carattere democratico. Conquistata, dopo il '900, la libertà di organizzazione e iniziatasi una fase democratica, fu evidente la incapacità di tutti i gruppi che lo componevamo a dargli la fisionomia di un partito marxista del proletariato.
Gli elementi intellettuali si staccarono anzi sempre piú dalla classe operaia, né ebbe un risultato il tentativo, dovuto a un altro strato di intellettuali e piccoli borghesi, di costituire una sinistra marxista che prese forma nel sindacalismo. Come reazione a questo tentativo trionfò in seno al partito la frazione integralista, la quale fu la espressione, nel suo vuoto verbalismo conciliatorista, di una caratteristica fondamentale del movimento operaio italiano, che si spiega essa pure con la debolezza dell'industrialismo, e con la deficiente coscienza critica del proletariato.
Il rivoluzionarismo degli anni precedenti la guerra mantenne intatta questa caratteristica, non riuscendo mai a superare i confini del generico popolarismo per giungere alla costruzione di un partito della classe operaia e alla applicazione del metodo della lotta di classe. Nel seno di questa corrente rivoluzionaria si incominciò, già prima della guerra, a differenziare un gruppo di «estrema sinistra» il quale sosteneva le tesi del marxismo rivoluzionario, in modo saltuario però e senza riuscire ad esercitare sullo sviluppo del movimento operaio una influenza reale.
In questo modo si spiega il carattere negativo ed equivoco che ebbe la opposizione del Partito socialista alla guerra e si spiega come il Partito socialista si trovasse, dopo la guerra, davanti a una situazione rivoluzionaria immediata, senza avere né risolto, né posto nessuno dei problemi fondamentali che la organizzazione politica del proletariato deve risolvere per attuare i suoi compiti: in prima linea il problema della «scelta della classe» e della forma organizzativa ad essa adeguata; poi il problema del programma del partito, quello della sua ideologia, e infine i problemi di strategia e di tattica la cui risoluzione porta a stringere attorno al proletariato le forze che gli sono naturalmente alleate nella lotta contro lo Stato e a guidarlo alla conquista del potere. La accumulazione sistematica di una esperienza che possa contribuire in modo positivo alla risoluzione di questi problemi si inizia in Italia soltanto dopo la guerra. Soltanto col Congresso di Livorno sono poste le basi costitutive del partito di classe del proletariato il quale, per diventare un partito bolscevico e attuare in pieno la sua funzione, deve liquidare tutte le tendenze antimarxiste tradizionalmente proprie del movimento operaio». [3]
Al XVI° Congresso (Bologna, 5-8 ottobre 1919), il Partito Socialista vota l'adesione alla Terza Internazionale, ma mantiene una formale unità interna, che impedisce di adottare una chiara e definita linea d'azione. Al congresso si scontrano quattro mozioni: quella dei massimalisti di Giacinto Menotti Serrati pone l'obiettivo della repubblica socialista su modello sovietico e, con innegabile meccanicismo deterministico, sostiene l'ineluttabilità di uno sbocco socialista senza, però, escludere la partecipazione alle elezioni; anche la mozione di Costantino Lazzari pone lo stesso obiettivo, ma ritiene che l'azione debba limitarsi alle forme di lotta legali; i riformisti di sinistra di Filippo Turati, la destra del partito, invece, non condividono l'applicabilità all'Italia del modello sovietico e non credono in uno sbocco rivoluzionario della crisi in atto, per cui la lotta deve limitarsi a rivendicare migliori condizioni retributive, di vita e di lavoro, mentre il socialismo resta un obiettivo finale, ma lontano, da perseguirsi attraverso il progressivo insediamento nello stato e nelle istituzioni borghesi con una tattica elettorale e parlamentare; infine, la mozione di Amadeo Bordiga, leader dei comunisti astensionisti, che pure sostiene l'instaurazione della repubblica socialista sovietica ma, in polemica con i massimalisti, non ritiene ineluttabile uno sbocco socialista, bensì raggiungibile solo attraverso un'attiva azione rivoluzionaria, escludendo qualsiasi partecipazione alle elezioni e alla democrazia borghese. Inoltre, unica tra le mozioni, chiede l'espulsione dei riformisti e propone di cambiare il nome del partito in Partito Comunista. Dopo tre giorni di dibattito, soprattutto sulla questione dell'atteggiamento nei confronti della destra del partito, prevale a maggioranza la mozione di Serrati.
A causa delle remore di Serrati e di Lazzari, il congresso sancisce una fittizia unità del partito e non scioglie il nodo dell'espulsione dei riformisti di sinistra, come, invece, chiede la minoranza interna comunista in ottemperanza alle condizioni, poste dal Comintern per farne parte. «Ogni organizzazione che desideri far parte del Comintern, è tenuta ad eliminare, in modo sistematico e pianificato, da qualsiasi incarico di benché minima responsabilità nel movimento operaio (organizzazioni di partito, redazioni, sindacati, gruppi parlamentari, cooperative, comuni, ecc.) i riformisti e i “centristi”, sostituendoli con comunisti fidati, senza avere paura che all'inizio, talvolta, occorra sostituire funzionari “esperti” con semplici operai». [4] E ancora: «I partiti che desiderano far parte dell'Internazionale Comunista sono tenuti a riconoscere la necessità di una totale e assoluta rottura con il riformismo e la politica del “centro”, propagandando questa rottura nei più ampi ambiti dei membri del partito. In mancanza di ciò, una politica comunista coerente è impossibile.
L'Internazionale Comunista esige, incondizionatamente e ultimativamente, che questa rottura si compia nel più breve tempo possibile. L'Internazionale Comunista non può acconsentire a che noti riformisti, come, per esempio, Turati, Modigliani, ecc., abbiano il diritto di considerarsi membri della Terza Internazionale. Un tale ordine delle cose porterebbe la Terza Internazionale a diventare, in forte misura, come la defunta Seconda Internazionale». [5]
La necessità di rompere nettamente con gli opportunisti e i riformisti, che la partecipazione alle istituzioni borghesi aveva condotto alla collaborazione di classe e all'accettazione della democrazia parlamentare come unico orizzonte politico concepibile, contribuendo così a disorganizzare la classe operaia e a danneggiare la fiducia delle masse lavoratrici nel Partito Socialista, era stata in più occasioni sottolineata con forza da Lenin, che già aveva valutato positivamente l'espulsione del gruppo dei riformisti di destra social-sciovinisti (Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, ecc.) al XIII° Congresso straordinario di Reggio Emilia del 1912.
Sostanzialmente, Serrati e Lazzari continuavano a non comprendere che era proprio il mantenimento dell'unità formale del partito a paralizzarlo e indebolirlo, mentre la rottura, eliminando dal partito gli elementi sabotatori della rivoluzione e collaborazionisti con la borghesia, lo avrebbe reso più forte e politicamente più incisivo.
La sostanziale inazione del Partito Socialista, oscillante tra la fraseologia rivoluzionaria e inconcludente dei massimalisti e la pratica conciliatoria, legalitaria e opportunista dei riformisti e dei vertici sindacali della CGL, avevano portato, già prima del XVI° Congresso, ad un embrione di organizzazione della componente marxista rivoluzionaria di ispirazione leninista. I nuclei più organizzati si formano a Torino, città a forte presenza di operai metallurgici e metalmeccanici, dove il 1° maggio 1919 un gruppo di giovani socialisti, tra cui Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Angelo Tasca, fonda “L'Ordine Nuovo, rassegna settimanale di cultura socialista” e a Napoli, dove Amadeo Bordiga nel dicembre 1918 aveva fondato il settimanale “Il Soviet”. Intorno alle due redazioni si coagulano operai, intellettuali e giovani socialisti, critici nei confronti della direzione del PSI e della CGL.
Da un'iniziale impostazione intellettualistica e antologica, datagli da Angelo Tasca [6] e definita da Gramsci, con senso autocritico, «una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta…, il prodotto di un mediocre intellettualismo, che (disordinatamente) cercava un approdo reale e una via per l’azione», [7] “L'Ordine Nuovo”, calandosi nel fuoco delle lotte reali e grazie allo stretto legame con il proletariato torinese, muta il proprio carattere, diventando centro di analisi teorica e organizzazione pratica della lotta di classe, trovando il proprio fulcro in quello che diverrà il tema strategico centrale della rivoluzione proletaria in Italia: lo sviluppo dei consigli di fabbrica come nucleo fondante dello stato socialista. «Il problema dello sviluppo della Commissione Interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’Ordine Nuovo; esso era posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia; era il problema della libertà proletaria. L’Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, il giornale dei Consigli di Fabbrica». [8]
Intanto, la III Internazionale e Lenin, che segue con grande attenzione gli sviluppi della situazione italiana, prendono una posizione netta e determinata in merito al dibattito in corso all'interno del PSI: « ... Dobbiamo soltanto dire ai compagni italiani che all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde l'indirizzo dei membri de “L'Ordine Nuovo” e non quello dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del suo gruppo parlamentare». [9]
Già nella primavera del 1919, una massiccia ondata di scioperi e agitazioni attraversa la penisola. Inizialmente dirette in modo generico contro l'aumento dei prezzi dei generi alimentari, esse gradualmente crebbero di intensità, incominciando ad avanzare rivendicazioni più precise: giornata lavorativa di otto ore e aumenti salariali. Sempre più spesso nelle manifestazioni veniva espressa la solidarietà con la Russia Sovietica e la volontà di seguirne l'esempio. Il governo del primo ministro Saverio Nitti diede disposizione ai prefetti del Regno di tollerare le manifestazioni a carattere economico, ma di reprimere con fermezza qualsiasi sciopero politico. Di fronte all'imponente protesta operaia e popolare, gli industriali concessero quasi immediatamente la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere.
Il 20-21 luglio dello stesso anno venne indetto uno sciopero generale di solidarietà con la Russia Sovietica, contro l'intervento militare dell'Intesa e dei suoi alleati, che coinvolse pressoché tutte le categorie di lavoratori, compresi i dipendenti dello stato. La sinistra interna del Partito Socialista e gli anarchici volevano uno sciopero ad oltranza con carattere insurrezionale, ma i vertici moderati della CGL imposero l'osservanza della legalità, negando qualsiasi sviluppo rivoluzionario dello sciopero e rifiutandosi di proclamarne la durata a oltranza. Questo fu uno dei più lampanti esempi di collaborazione della dirigenza sindacale con lo stato e il governo borghesi, in ottemperanza alle direttive del primo ministro Nitti. La linea del governo è chiara: favorire la collaborazione dei “partiti d'ordine”, reprimere gli “elementi sovversivi”, utilizzare, nell'opera di repressione, milizie paramilitari private, come i neocostituiti fascisti. [10] Meno chiara è la posizione moderata e collaborazionista dei vertici sindacali, controllati dai riformisti, che disorientò e demoralizzò le masse operaie, frustrandone lo stato d'animo rivoluzionario. Tuttavia, la capacità di mobilitazione e la combattività del proletariato italiano spaventarono non poco la borghesia.
Mentre agrari e industriali aumentavano il sostegno al neonato movimento fascista, che utilizzavano contro il movimento operaio e contadino con la complicità del governo e della corona, anche la Chiesa si mobilitava per frenare la diffusione delle idee socialiste tra gli strati popolari. Il non expedit (non è conveniente), espresso da Pio IX nel 1874, chiarito nelle sue implicazioni e promulgato dal Sant'Uffizio sotto il pontificato di Leone XIII nel 1886 (non expedit prohibitionem importat, la non convenienza comporta il divieto), che vietava la partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana come reazione alla fine della sovranità temporale del papa, attuata con l'unificazione del paese nel Regno d'Italia, venne abrogato da papa Benedetto XV nel 1919. Nello stesso anno, il prete Luigi Sturzo, insieme ad altri intellettuali cattolici, fondò il Partito Popolare Italiano, di ispirazione cattolica e vocazione interclassista, che si rifaceva alla dottrina sociale della Chiesa, segnando così il ritorno dei cattolici alla vita politica attiva. Gramsci capì con chiarezza il ruolo del nuovo partito: «Il cattolicismo entra cosí in concorrenza, non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo, esso si pone sullo stesso terreno del socialismo, si rivolge alle masse come il socialismo». [11]
Alle elezioni del 1919, le prime con sistema proporzionale nella storia italiana, il Partito Socialista ebbe una forte affermazione e divenne il primo partito del Regno, con il 32,28%. Il secondo partito era il neonato Partito Popolare, con il 20,5%. I tradizionali partiti liberali, democratici e radicali persero la maggioranza in Parlamento. Questo risultato segnò il tramonto dei partiti risorgimentali, che erano in sostanza comitati elettorali di questa o quella frazione di borghesia e l'avvento sulla scena politica dei moderni partiti di massa. Le maggioranze di governo della legislatura, tuttavia, resteranno ancora controllate dai partiti risorgimentali, ma allargate al Partito Popolare e al Partito Socialista Riformista di Bissolati, espulso nel 1912 dal Partito Socialista. I comunisti riuniti intorno a L'Ordine Nuovo indicano con chiarezza come gestire e a cosa finalizzare il successo elettorale: «La rivoluzione comunista non può essere realizzata con un colpo di mano … è necessario che l’avanguardia rivoluzionaria susciti, coi suoi mezzi e i suoi sistemi, le condizioni materiali e spirituali in cui la classe proprietaria non riesca più a governare pacificamente le grandi masse di uomini, ma sia costretta, per la intransigenza dei deputati socialisti controllati e disciplinati dal partito, a interrorire le grandi masse, a colpire ciecamente e a farle rivoltare. Un fine di tal genere può solo essere perseguito oggi attraverso l’azione parlamentare, intesa come azione che tende a immobilizzare il Parlamento, a strappare la maschera democratica dalla faccia equivoca della dittatura borghese e farla vedere in tutto il suo orrore e la sua bruttezza ripugnante». [12] Una partecipazione alle sole istituzioni elettive borghesi, quindi, che impedisca che le masse proletarie «siano illuse, che si faccia loro credere che sia possibile superare la crisi attuale con l’azione parlamentare, con l’azione riformistica. È necessario incrudire il distacco delle classi, è necessario che la borghesia dimostri la sua assoluta incapacità a soddisfare i bisogni delle moltitudini, è necessario che queste si persuadano sperimentalmente che sussiste un dilemma netto e crudo: o la morte per fame, … o uno sforzo eroico, uno sforzo sovrumano degli operai e contadini italiani per creare un ordine proletario … Solo per questi motivi rivoluzionari l’avanguardia cosciente del proletariato italiano è scesa nella lizza elettorale, si è solidamente piantata nella fiera parlamentare. Non per un’illusione democratica, non per un intenerimento riformista: per creare le condizioni del trionfo del proletariato, per assicurare la buona riuscita dello sforzo rivoluzionario che è diretto a instaurare la dittatura proletaria incarnantesi nel sistema dei Consigli, fuori e contro il Parlamento». [13]
Il Partito Socialista, tuttavia, non risponderà alle sollecitazioni dei comunisti de L'Ordine Nuovo, dimostrandosi incapace di elaborare una tattica efficace e di sfruttare adeguatamente il successo elettorale a vantaggio del proletariato. Anziché sviluppare la lotta parlamentare nel senso inteso da Lenin e Gramsci, il Partito Socialista continuerà a dibattersi tra rivoluzionarismo a parole e “cretinismo parlamentare” [14] nei fatti.
La sostanziale indecisione del Partito Socialista, l'aperta collaborazione dei suoi dirigenti riformisti con il governo e il nemico di classe, il moderatismo e l'inerzia dei vertici della CGL avevano intanto esasperato la classe operaia. All’inizio di agosto gli operai della Fiat Centro rimossero la vecchia Commissione Interna e ne elessero una completamente rinnovata, composta di elementi operai avanzati, in un gesto di contrapposizione alla dirigenza della CGL: è il primo passo verso la creazione dei Consigli di Fabbrica.
La Confederazione dell'Industria, che intanto sta organizzando la revanche, cerca lo scontro con la classe operaia e intende vincerlo con ogni mezzo e definitivamente. Per questo, a scopo provocatorio, rifiuta di discutere di qualsiasi aumento salariale.
Il 22 marzo 1920, all'entrata in vigore dell'ora legale, la Commissione Interna della FIAT Industrie Metallurgiche chiede che l'inizio della giornata lavorativa sia posticipato di un'ora. Al rifiuto della proprietà, gli operai spostano indietro le lancette dell'orologio di loro iniziativa e, per rappresaglia, la direzione dello stabilimento licenzia tre membri della Commissione Interna ed esige la non eleggibilità per un anno di sei operai, ledendo provocatoriamente “i diritti civili proletari” e l'autonomia decisionale della classe operaia al proprio interno. Le lancette sono solo un pretesto: lo scontro, in realtà, verte sui poteri e sul ruolo delle commissioni interne, trasformate in Consigli di Fabbrica e l'intento è quello di piegare gli operai,eliminandone l'autonomia di classe e gli istituti in cui essa si incarna.
In risposta, il 29 marzo, viene proclamato uno sciopero di solidarietà (passerà alla storia come “sciopero delle lancette”). Il 14 aprile, la lotta si estende a tutto il Piemonte, trasformandosi in sciopero generale, con il coinvolgimento di lavoratori di altre categorie. La direzione del Partito Socialista e i vertici della CGL respingono, tuttavia, la richiesta del movimento dei consigli di fabbrica e del gruppo riunito intorno a “L'Ordine Nuovo” di estendere la lotta a tutte le categorie e a tutto il territorio nazionale, portandola ad uno sbocco rivoluzionario. Senza l'appoggio del Partito Socialista e sotto minaccia di intervento di 50.000 militari, inviati dal governo a presidiare la città, gli operai il 24 aprile posero fine allo sciopero senza avere ottenuto nulla, uscendo sconfitti dal confronto. Gramsci commenterà così il risultato dello scontro: «La classe operaia torinese è stata sconfitta e non poteva che essere sconfitta. La classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta; essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto perché l’iniziativa della guerra delle classi appartiene ancora ai capitalisti e al potere dello Stato borghese … La vasta offensiva capitalistica fu minuziosamente preparata senza che lo “stato maggiore” della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell’organizzazione divenne una condizione della lotta, un’arma tremenda in mano agli industriali e al potere di Stato, una fonte di debolezza per i dirigenti locali della sezione metallurgica. Gli industriali condussero l’azione con estrema abilità. Gli industriali sono divisi tra loro per il profitto, sono divisi tra loro per la concorrenza economica e politica, ma di fronte alla classe operaia essi sono un blocco d’acciaio ... ». [15] Gli operai hanno subito un duro colpo, ma non abbassano la testa: «La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l’unità proletaria … Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, per impostare un piano organico di rinnovazione dell’apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi e spinga i sindacati nel campo di lotta della III Internazionale Comunista». [16]
A seguito delle manifestazioni proletarie in occasione del 1° Maggio, duramente represse dalla Guardia Regia e di un nuovo sciopero contro l'aumento del prezzo del pane, il 9 giugno 1920, il primo ministro Nitti si dimette e il re conferisce incarico all'ottantenne Giovanni Giolitti di formare il nuovo governo.
Il 18 giugno 1920, la FIOM inoltra alla Federazione degli Industriali Meccanici e Metallurgici una richiesta di adeguamento salariale all'aumentato costo della vita, seguita in questo dai sindacati delle altre categorie operaie. Gli industriali rispondono con un netto rifiuto e il 13 agosto rompono le trattative. La FIOM, a questo punto, decide di adottare la tattica dello sciopero bianco: rallentamento della produzione e dei tempi, astensione dal cottimo e applicazione rigorosa delle norme di sicurezza sul lavoro, senza ricorrere al sabotaggio. Il risultato è un forte calo della produzione.
Decisi a condurre lo scontro fino in fondo, gli industriali prendono le loro contromisure. Il 30 agosto 1920 le Officine Romeo & C. attuano la serrata. Lo stesso giorno, gli operai rispondono con l'occupazione armata delle fabbriche metallurgiche e meccaniche torinesi. Il 31 agosto, Confindustria proclama la serrata nazionale. A questo punto, l'occupazione si estende rapidamente da Torino alle fabbriche di Milano, Genova, Firenze, Bologna, Roma e Napoli, trovando la solidarietà spontanea dei lavoratori di altre categorie, soprattutto autoferrotranvieri, portuali, braccianti e salariati agricoli fissi. Nelle fabbriche occupate, gli operai assumono il controllo della produzione, costituiscono i primi nuclei della Guardia Rossa, incaricata di difendere gli stabilimenti occupati e pronta, se necessario, allo scontro armato con l'esercito, iniziano a produrre armi per il proseguimento della lotta.
Il governo adotta una linea di mediazione tra industriali e operai che mantenga il conflitto su un piano puramente sindacale, evitando lo scontro armato e puntando al logoramento del movimento di lotta, grazie anche alla collaborazione dei vertici della CGL, in maggioranza riformisti.
Intanto, il Partito Socialista e la CGL si trovavano a dovere decidere come e dove condurre un movimento che, nei fatti, aveva dimostrato di essere ben più avanzato di coloro che avrebbero dovuto dirigerlo. Furono convocati a Milano gli Stati Generali del Proletariato, dal 9 all'11 settembre.
Il 9 settembre, il Comitato Direttivo della CGL discusse la questione della proclamazione dello sciopero generale insurrezionale. La maggioranza dei dirigenti sindacali, riformista, contraria a questa ipotesi, propose subdolamente le proprie dimissioni in blocco e il passaggio delle funzioni dirigenti a elementi orientati in senso rivoluzionario, se disposti ad accettarne la responsabilità. La frazione comunista, qui rappresentata da Togliatti, non cadde nella trappola, capendone lo scopo: provocare l'iniziativa rivoluzionaria, isolarla e sabotarla, lasciandola schiacciare militarmente, quindi accusare i dirigenti rivoluzionari di irresponsabilità e avventurismo, additandoli alle masse come responsabili della sconfitta. In effetti, la speranza di successo di un tentativo insurrezionale poteva essere garantita solo da una presenza organizzata diffusa e coordinata a livello nazionale, che la frazione comunista all'interno del PSI non aveva ancora. La proposta di dimissioni fu reiterata nella riunione congiunta del Direttivo CGL con la segreteria del PSI, tenutasi il 10 settembre, dove quest'ultima, pilatescamente, si rimise alle decisioni del Consiglio Nazionale CGL che si sarebbe riunito il giorno successivo.
Al Consiglio Nazionale si confrontarono, quindi, due mozioni: una che prevedeva di demandare al Partito Socialista la direzione del movimento per guidarlo ad uno sbocco rivoluzionario per la realizzazione del programma massimo socialista e una seconda mozione, proposta dalla segreteria della CGL, che prevedeva solo l'obiettivo immediato dell'ottenimento di aumenti salariali e del riconoscimento da parte dei padroni del controllo sindacale in azienda. Prevalse a larga maggioranza quest'ultima mozione, sancendo la rinuncia a trasformare le occupazioni delle fabbriche in rivoluzione proletaria. Il Partito Socialista, in base al Patto d'Alleanza con la CGL, firmato nel 1918, avrebbe ancora potuto assumere d'autorità la direzione del movimento, ma rinunciò ad esercitare tale facoltà per bocca dell'allora segretario, Egidio Gennari, ponendosi così di fatto al di fuori della lotta e dei giochi.
Constatato l'abbandono di ogni prospettiva rivoluzionaria dal parte del sindacato e del Partito Socialista, il primo ministro Giolitti ebbe buon gioco nella sua attività di mediazione e, il 19 settembre 1920, fu siglato un accordo preventivo tra CGL e Confindustria, che prevedeva aumenti salariali e miglioramenti normativi in tema di ferie e licenziamenti in cambio della cessazione dell'occupazione delle fabbriche e della ripresa della produzione, impegnando il governo a redigere un disegno di legge sul controllo operaio che, per altro, non fu mai predisposto. Il concordato definitivo fu firmato a Milano il 1 ottobre 1920, dopo che gli stabilimenti occupati erano stati restituiti ai padroni.
Se le lotte degli operai furono centrali nel Biennio Rosso, non furono certo le uniche grandi agitazioni del periodo. Nelle zone agricole del paese, anche nel Sud, vi furono estesi episodi di occupazione delle terre da parte dei braccianti e dei salariati agricoli fissi e scontri violenti con i proprietari terrieri, che sempre più spesso si avvalevano delle camicie nere fasciste per intimidire e reprimere i proletari rurali. Le agitazioni coinvolsero addirittura l'esercito, spesso inviato ad affiancare la Guardia Regia nell'opera di deterrenza e repressione. Si registrarono parecchi casi di solidarietà dei militari di truppa con gli scioperanti. Ad Ancona, i militari dell'11° Reggimento Bersaglieri, nella notte del 25 giugno, insorsero contro l'invio di truppe in Albania, predisposto in attuazione del Patto di Londra, disarmando e facendo prigionieri gli ufficiali. Ne seguì una serie di scontri con la Guardia Regia e i Carabinieri, inviati a sedare la rivolta. I lavoratori di Ancona insorsero a fianco dei bersaglieri e, ben presto gli scontri si estesero a tutte le Marche e all'Umbria. Mentre i ferrovieri bloccavano le linee ferroviarie, a Milano veniva proclamato uno sciopero di solidarietà di due giorni e, a Roma, lo sciopero generale ad oltranza, nonostante il parere contrario della CGL. Per sedare la rivolta, il governo decise di impiegare la Marina Militare. Il 28 giugno, dopo il bombardamento navale della città, la rivolta fu sedata. Ciononostante, l'insurrezione dei bersaglieri contribuì al ritiro delle forze armate italiane dall'Albania e alla firma del Trattato di Tirana.
La dura sconfitta politica con cui si chiuse il Biennio Rosso verrà, anni dopo, analizzata da Gramsci: «Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista». [17]