Il movimento operaio italiano all'epoca dell'Ottobre Rosso


Guido Ricci, membro dell'Ufficio Politico del CC e Alberto Lombardo, membro dell'Ufficio politico del CC per “Critica Proletaria”, rivista del Partito Comunista (Italia)

Il 7 novembre (25 ottobre, secondo il vecchio calendario ortodosso) 1917, le salve dei cannoni dell'incrociatore Avrora e l'assalto al Palazzo d'Inverno, sede del governo provvisorio, aprono una nuova era, nella quale le masse proletarie si affacciano vittoriosamente alla ribalta della storia, non più come moderni schiavi della produzione capitalistica o come carne da cannone, ma come protagonisti del proprio destino storico di liberatori dell'umanità dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, guidate dalla classe operaia, che rivendica per sé tutto il potere, ergendosi a stato e dalla sua avanguardia, i Bolscevichi.

La vittoria proletaria ebbe - e ha ancora oggi, anche se il primo stato operaio al mondo, che da essa scaturì, non esiste più – un irreversibile impatto planetario: il mondo e la storia non sarebbero mai più stati quelli di prima. La dimostrazione concreta che il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo e la costruzione del socialismo sono realmente possibili, il crollo definitivo del sistema coloniale, la sconfitta del fascismo, la lotta politica attiva della classe operaia e le sue grandi conquiste sociali e civili in molti paesi capitalistici durante il secondo dopoguerra sono parte dell'incancellabile eredità dell'Ottobre Rosso. La stessa creazione di un sistema mondiale di paesi socialisti dopo la II Guerra Mondiale ha lasciato un'impronta indelebile nelle coscienze e nella memoria storica dei lavoratori di quei paesi, paradossalmente maggiore oggi, quando questo sistema non esiste più, rovesciato dalla temporanea vittoria della controrivoluzione e se ne sente la mancanza, in termini di mantenimento della pace e degli equilibri strategici, di sostegno alle lotte del proletariato mondiale e garanzia delle sue conquiste, di esempio di giustizia sociale e libertà reale. Non è nostalgia, ma punto d'orientamento e fonte di contenuti per avviare una nuova fase dello scontro di classe tra lavoro salariato e capitale, tra proletariato e borghesia per instaurare nuovamente il socialismo, nel solco, quanto mai attuale, della Rivoluzione d'Ottobre.

Altrettanto importante è il patrimonio teorico e pratico, lasciatoci dall'Ottobre Rosso, in termini di concezione del partito rivoluzionario della classe operaia, di strategia e tattica della rivoluzione socialista, della dittatura proletaria come forma più avanzata e democratica di organizzazione statuale, della costruzione dell'economia sociale e collettiva come presupposto per la creazione della base materiale della società comunista, di una politica estera, fondata sui principi di classe della solidarietà proletaria, dell'antagonismo sistemico tra capitalismo e socialismo, del mantenimento della pace.

La Rivoluzione d'Ottobre e la fondazione dell'Internazionale Comunista determinarono una profonda trasformazione anche del movimento operaio italiano, dei suoi partiti politici, delle sue organizzazioni sindacali e del quadro della lotta di classe.

La situazione economica in Italia alla fine della Prima Guerra Mondiale

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, l'economia italiana è profondamente in crisi. La “vittoria”, frutto di accordi diplomatici segreti, più che di successi militari [1], è costata 1.240.000 vittime militari e civili (3,48% della popolazione), al netto dei morti per l'epidemia di febbre spagnola. [2] La Tab. 1 mostra gli andamenti del PIL reale e del debito pubblico prima, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale.

Tabella 1 – PIL a prezzi costanti, confini attuali, debito pubblico e rapporto debito/PIL a prezzi correnti

Anno

PIL (lire 1913) reale*

Debito pubblico nominale**

valore

indice

var. %

valore

indice

var. %

% sul PIL nominale

1913

32.158.513.328

100,00

-

2.681.232

100,00

-

71,21

1914

30.416.954.101

94,58

-5,42

2.853.772

106,44

6,44

80,17

1915

29.309.348.227

91,14

-3,64

3.609.982

134,64

26,50

91,22

1916

32.034.494.602

99,61

9,30

4.559.853

170,07

26,31

80,86

1917

32.092.647.538

99,80

0,18

7.623.244

284,32

67,18

94,58

1918

31.061.067.252

96,59

-3,21

10.396.684

387,76

36,38

93,84

1919

29.303.026.282

91,12

-5,66

16.141.264

602,01

55,25

134,46

1920

30.088.370.306

93,56

2,68

26.041.543

971,25

61,34

153,76

1921

29.209.807.875

90,83

-2,92

26.168.898

976,00

0,49

153,23

* Banca d'Italia, A. Baffigi, Il PIL per la storia d'Italia, nostra elaborazione

** ISTAT, Serie storiche del debito delle Amministrazioni Pubbliche, nostra elaborazione

Come si vede, nel periodo considerato l'Italia non riesce ad uscire da una pesante recessione, se non durante gli anni di guerra, in cui la temporanea ripresa è dovuta all'effetto doping delle commesse militari statali. In ogni modo, nonostante questa temporanea crescita, il PIL non raggiungerà mai, nel periodo considerato, i livelli del 1913, anno d'inizio della crisi. Il debito pubblico, con una variazione media annuale in aumento nel periodo di +31,09%, è aumentato di quasi 3 volte rispetto al 1913 e continuerà a crescere negli anni successivi, fino a diventare quasi 9 volte quello dell'anno di riferimento. E' aumentato anche il peso del debito sul PIL, sia per effetto della contrazione di quest'ultimo, che in conseguenza dell'aumento più che proporzionale del debito. A ciò si aggiunge un aumento significativo del saldo negativo della bilancia dei pagamenti, che contribuisce a fare precipitare il valore della lira. La Tabella 2 mostra l'andamento dei salari industriali e dell'inflazione nel periodo considerato.

Tabella 2 – Salari giornalieri nominali (lire correnti), salari reali (lire costanti 1913) e inflazione periodo 1913 - 1921

Anno

Salario

lire correnti

Salario

lire costanti

Salari reali

Indice

Variazione %

annua

Prezzi al consumo

Indice

Inflazione

%

1913

2,84

2,84

100,00

-

100,00

-

1914

2,89

2,89

101,76

1,76

100,00

0,00

1915

3,13

2,87

101,11

-0,64

107,00

7,00

1916

3,51

2,60

91,55

-9,46

133,90

25,14

1917

4,71

2,47

86,83

-5,16

189,40

41,45

1918

5,88

2,22

78,13

-10,02

264,10

39,44

1919

8,32

3,08

108,50

38,88

268,10

1,55

1920

13,66

4,03

141,88

30,76

352,30

31,41

1921

16,36

3,92

138,14

-2,74

416,80

18,31

Fonte: V. Negri Zamagni, Salari e profitti nell'industria italiana tra decollo industriale e anni '30, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 2002

I salari, in termini reali, alla fine della guerra nel 1918, sono diminuiti complessivamente del 21,87% rispetto al 1913, con una perdita media annua di quasi il 4% su tutto il periodo, a causa, principalmente, della forte inflazione

L'evidente, drastico peggioramento delle condizioni di vita del proletariato urbano e rurale, che deriva da questo quadro economico, innesca un'esplosione del conflitto di classe, con un'ondata di scioperi che coinvolge tutto il paese e culminerà con l'occupazione delle fabbriche nei centri industriali del Nord e delle terre nella Pianura Padana e nel Sud. Gli storici definiranno questo periodo come il “Biennio Rosso” italiano (1919-1920).

Rispetto alle agitazioni precedenti il 1917, però, il fatto nuovo è il passaggio da un terreno di lotta strettamente economico ad un terreno più politico, dove alle rivendicazioni per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro si aggiunge la rivendicazione esplicita del potere operaio, organizzato in Consigli sul modello dei Soviet. Il socialismo, da prospettiva ideale dai contorni vaghi, diventa, agli occhi delle masse, realtà storica, con le forme e i contenuti concreti che assume con la Rivoluzione d'Ottobre. Questo nuovo carattere delle lotte proletarie si afferma in modo quasi spontaneo, almeno in un primo momento, più effetto del potente fascino ideale esercitato dalla Rivoluzione d'Ottobre, che trasforma l'istinto di classe in un embrione di coscienza di classe, che come risultato di una attività rivoluzionaria organizzata del Partito Socialista. La propaganda socialista ufficiale, infatti, attraverso le colonne dell'Avanti! diretto da Serrati e dei periodici che fanno capo alla maggioranza massimalista, si limita ad una roboante esaltazione formale della Rivoluzione d'Ottobre e della giovane Russia Sovietica, ma, in sostanza, la dirigenza del Partito Socialista e quella della CGL si dimostrano prive di tattiche e strategie coerenti e incapaci di gestire la crisi rivoluzionaria in atto e dirigere il proletariato verso la vittoria.

Il Biennio Rosso in Italia

Gramsci spiega egregiamente la situazione del movimento operaio, storicamente determinatasi in Italia, nelle cosiddette “Tesi di Lione”, approvate al III° Congresso del PCdI, tenutosi clandestinamente a Lione nel gennaio 1926: «In Italia le origini e le vicende del movimento operaio furono tali che non si costituì mai, prima della guerra, una corrente di sinistra marxista che avesse un carattere di permanenza e di continuità. Il carattere originario del movimento operaio italiano fu molto confuso; vi confluirono tendenze diverse, dall'idealismo mazziniano al generico umanitarismo dei cooperatori e dei fautori della mutualità e al bakuninismo, il quale sosteneva che esistevano in Italia, anche prima di uno sviluppo del capitalismo, le condizioni per passare immediatamente al socialismo.

La tarda origine e la debolezza dell'industrialismo fecero mancare l'elemento chiarificatore dato dalla esistenza di un forte proletariato, ed ebbero come conseguenza che anche la scissione degli anarchici dai socialisti si ebbe con un ritardo di una ventina di anni (1892, Congresso di Genova).

Nel Partito socialista italiano come uscí dal Congresso di Genova due erano le correnti dominanti. Da una parte vi era un gruppo di intellettuali che non rappresentavano piú della tendenza a una riforma democratica dello Stato: il loro marxismo non andava oltre il proposito di suscitare e organizzare le forze del proletariato per farle servire alla istaurazione della democrazia (Turati, Bissolati, ecc.). Dall'altra un gruppo piú direttamente collegato con il movimento proletario, rappresentante una tendenza operaia, ma sfornito di qualsiasi adeguata coscienza teorica (Lazzari). Fino al '900 il partito non si propose altri fini che di carattere democratico. Conquistata, dopo il '900, la libertà di organizzazione e iniziatasi una fase democratica, fu evidente la incapacità di tutti i gruppi che lo componevamo a dargli la fisionomia di un partito marxista del proletariato.

Gli elementi intellettuali si staccarono anzi sempre piú dalla classe operaia, né ebbe un risultato il tentativo, dovuto a un altro strato di intellettuali e piccoli borghesi, di costituire una sinistra marxista che prese forma nel sindacalismo. Come reazione a questo tentativo trionfò in seno al partito la frazione integralista, la quale fu la espressione, nel suo vuoto verbalismo conciliatorista, di una caratteristica fondamentale del movimento operaio italiano, che si spiega essa pure con la debolezza dell'industrialismo, e con la deficiente coscienza critica del proletariato.

Il rivoluzionarismo degli anni precedenti la guerra mantenne intatta questa caratteristica, non riuscendo mai a superare i confini del generico popolarismo per giungere alla costruzione di un partito della classe operaia e alla applicazione del metodo della lotta di classe. Nel seno di questa corrente rivoluzionaria si incominciò, già prima della guerra, a differenziare un gruppo di «estrema sinistra» il quale sosteneva le tesi del marxismo rivoluzionario, in modo saltuario però e senza riuscire ad esercitare sullo sviluppo del movimento operaio una influenza reale.

In questo modo si spiega il carattere negativo ed equivoco che ebbe la opposizione del Partito socialista alla guerra e si spiega come il Partito socialista si trovasse, dopo la guerra, davanti a una situazione rivoluzionaria immediata, senza avere né risolto, né posto nessuno dei problemi fondamentali che la organizzazione politica del proletariato deve risolvere per attuare i suoi compiti: in prima linea il problema della «scelta della classe» e della forma organizzativa ad essa adeguata; poi il problema del programma del partito, quello della sua ideologia, e infine i problemi di strategia e di tattica la cui risoluzione porta a stringere attorno al proletariato le forze che gli sono naturalmente alleate nella lotta contro lo Stato e a guidarlo alla conquista del potere. La accumulazione sistematica di una esperienza che possa contribuire in modo positivo alla risoluzione di questi problemi si inizia in Italia soltanto dopo la guerra. Soltanto col Congresso di Livorno sono poste le basi costitutive del partito di classe del proletariato il quale, per diventare un partito bolscevico e attuare in pieno la sua funzione, deve liquidare tutte le tendenze antimarxiste tradizionalmente proprie del movimento operaio». [3]

Al XVI° Congresso (Bologna, 5-8 ottobre 1919), il Partito Socialista vota l'adesione alla Terza Internazionale, ma mantiene una formale unità interna, che impedisce di adottare una chiara e definita linea d'azione. Al congresso si scontrano quattro mozioni: quella dei massimalisti di Giacinto Menotti Serrati pone l'obiettivo della repubblica socialista su modello sovietico e, con innegabile meccanicismo deterministico, sostiene l'ineluttabilità di uno sbocco socialista senza, però, escludere la partecipazione alle elezioni; anche la mozione di Costantino Lazzari pone lo stesso obiettivo, ma ritiene che l'azione debba limitarsi alle forme di lotta legali; i riformisti di sinistra di Filippo Turati, la destra del partito, invece, non condividono l'applicabilità all'Italia del modello sovietico e non credono in uno sbocco rivoluzionario della crisi in atto, per cui la lotta deve limitarsi a rivendicare migliori condizioni retributive, di vita e di lavoro, mentre il socialismo resta un obiettivo finale, ma lontano, da perseguirsi attraverso il progressivo insediamento nello stato e nelle istituzioni borghesi con una tattica elettorale e parlamentare; infine, la mozione di Amadeo Bordiga, leader dei comunisti astensionisti, che pure sostiene l'instaurazione della repubblica socialista sovietica ma, in polemica con i massimalisti, non ritiene ineluttabile uno sbocco socialista, bensì raggiungibile solo attraverso un'attiva azione rivoluzionaria, escludendo qualsiasi partecipazione alle elezioni e alla democrazia borghese. Inoltre, unica tra le mozioni, chiede l'espulsione dei riformisti e propone di cambiare il nome del partito in Partito Comunista. Dopo tre giorni di dibattito, soprattutto sulla questione dell'atteggiamento nei confronti della destra del partito, prevale a maggioranza la mozione di Serrati.

A causa delle remore di Serrati e di Lazzari, il congresso sancisce una fittizia unità del partito e non scioglie il nodo dell'espulsione dei riformisti di sinistra, come, invece, chiede la minoranza interna comunista in ottemperanza alle condizioni, poste dal Comintern per farne parte. «Ogni organizzazione che desideri far parte del Comintern, è tenuta ad eliminare, in modo sistematico e pianificato, da qualsiasi incarico di benché minima responsabilità nel movimento operaio (organizzazioni di partito, redazioni, sindacati, gruppi parlamentari, cooperative, comuni, ecc.) i riformisti e i “centristi”, sostituendoli con comunisti fidati, senza avere paura che all'inizio, talvolta, occorra sostituire funzionari “esperti” con semplici operai». [4] E ancora: «I partiti che desiderano far parte dell'Internazionale Comunista sono tenuti a riconoscere la necessità di una totale e assoluta rottura con il riformismo e la politica del “centro”, propagandando questa rottura nei più ampi ambiti dei membri del partito. In mancanza di ciò, una politica comunista coerente è impossibile. 

L'Internazionale Comunista esige, incondizionatamente e ultimativamente, che questa rottura si compia nel più breve tempo possibile. L'Internazionale Comunista non può acconsentire a che noti riformisti, come, per esempio, Turati, Modigliani, ecc., abbiano il diritto di considerarsi membri della Terza Internazionale. Un tale ordine delle cose porterebbe la Terza Internazionale a diventare, in forte misura, come la defunta Seconda Internazionale». [5]

La necessità di rompere nettamente con gli opportunisti e i riformisti, che la partecipazione alle istituzioni borghesi aveva condotto alla collaborazione di classe e all'accettazione della democrazia parlamentare come unico orizzonte politico concepibile, contribuendo così a disorganizzare la classe operaia e a danneggiare la fiducia delle masse lavoratrici nel Partito Socialista, era stata in più occasioni sottolineata con forza da Lenin, che già aveva valutato positivamente l'espulsione del gruppo dei riformisti di destra social-sciovinisti (Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, ecc.) al XIII° Congresso straordinario di Reggio Emilia del 1912.

Sostanzialmente, Serrati e Lazzari continuavano a non comprendere che era proprio il mantenimento dell'unità formale del partito a paralizzarlo e indebolirlo, mentre la rottura, eliminando dal partito gli elementi sabotatori della rivoluzione e collaborazionisti con la borghesia, lo avrebbe reso più forte e politicamente più incisivo.

La sostanziale inazione del Partito Socialista, oscillante tra la fraseologia rivoluzionaria e inconcludente dei massimalisti e la pratica conciliatoria, legalitaria e opportunista dei riformisti e dei vertici sindacali della CGL, avevano portato, già prima del XVI° Congresso, ad un embrione di organizzazione della componente marxista rivoluzionaria di ispirazione leninista. I nuclei più organizzati si formano a Torino, città a forte presenza di operai metallurgici e metalmeccanici, dove il 1° maggio 1919 un gruppo di giovani socialisti, tra cui Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Angelo Tasca, fonda “L'Ordine Nuovo, rassegna settimanale di cultura socialista” e a Napoli, dove Amadeo Bordiga nel dicembre 1918 aveva fondato il settimanale “Il Soviet”. Intorno alle due redazioni si coagulano operai, intellettuali e giovani socialisti, critici nei confronti della direzione del PSI e della CGL.

Da un'iniziale impostazione intellettualistica e antologica, datagli da Angelo Tasca [6] e definita da Gramsci, con senso autocritico, «una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta…, il prodotto di un mediocre intellettualismo, che (disordinatamente) cercava un approdo reale e una via per l’azione», [7] “L'Ordine Nuovo”, calandosi nel fuoco delle lotte reali e grazie allo stretto legame con il proletariato torinese, muta il proprio carattere, diventando centro di analisi teorica e organizzazione pratica della lotta di classe, trovando il proprio fulcro in quello che diverrà il tema strategico centrale della rivoluzione proletaria in Italia: lo sviluppo dei consigli di fabbrica come nucleo fondante dello stato socialista. «Il problema dello sviluppo della Commissione Interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’Ordine Nuovo; esso era posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia; era il problema della libertà proletaria. L’Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, il giornale dei Consigli di Fabbrica». [8]

Intanto, la III Internazionale e Lenin, che segue con grande attenzione gli sviluppi della situazione italiana, prendono una posizione netta e determinata in merito al dibattito in corso all'interno del PSI: « ... Dobbiamo soltanto dire ai compagni italiani che all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde l'indirizzo dei membri de “L'Ordine Nuovo” e non quello dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del suo gruppo parlamentare». [9]

Già nella primavera del 1919, una massiccia ondata di scioperi e agitazioni attraversa la penisola. Inizialmente dirette in modo generico contro l'aumento dei prezzi dei generi alimentari, esse gradualmente crebbero di intensità, incominciando ad avanzare rivendicazioni più precise: giornata lavorativa di otto ore e aumenti salariali. Sempre più spesso nelle manifestazioni veniva espressa la solidarietà con la Russia Sovietica e la volontà di seguirne l'esempio. Il governo del primo ministro Saverio Nitti diede disposizione ai prefetti del Regno di tollerare le manifestazioni a carattere economico, ma di reprimere con fermezza qualsiasi sciopero politico. Di fronte all'imponente protesta operaia e popolare, gli industriali concessero quasi immediatamente la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere.

Il 20-21 luglio dello stesso anno venne indetto uno sciopero generale di solidarietà con la Russia Sovietica, contro l'intervento militare dell'Intesa e dei suoi alleati, che coinvolse pressoché tutte le categorie di lavoratori, compresi i dipendenti dello stato. La sinistra interna del Partito Socialista e gli anarchici volevano uno sciopero ad oltranza con carattere insurrezionale, ma i vertici moderati della CGL imposero l'osservanza della legalità, negando qualsiasi sviluppo rivoluzionario dello sciopero e rifiutandosi di proclamarne la durata a oltranza. Questo fu uno dei più lampanti esempi di collaborazione della dirigenza sindacale con lo stato e il governo borghesi, in ottemperanza alle direttive del primo ministro Nitti. La linea del governo è chiara: favorire la collaborazione dei “partiti d'ordine”, reprimere gli “elementi sovversivi”, utilizzare, nell'opera di repressione, milizie paramilitari private, come i neocostituiti fascisti. [10] Meno chiara è la posizione moderata e collaborazionista dei vertici sindacali, controllati dai riformisti, che disorientò e demoralizzò le masse operaie, frustrandone lo stato d'animo rivoluzionario. Tuttavia, la capacità di mobilitazione e la combattività del proletariato italiano spaventarono non poco la borghesia. 

Mentre agrari e industriali aumentavano il sostegno al neonato movimento fascista, che utilizzavano contro il movimento operaio e contadino con la complicità del governo e della corona, anche la Chiesa si mobilitava per frenare la diffusione delle idee socialiste tra gli strati popolari. Il non expedit (non è conveniente), espresso da Pio IX nel 1874, chiarito nelle sue implicazioni e promulgato dal Sant'Uffizio sotto il pontificato di Leone XIII nel 1886 (non expedit prohibitionem importat, la non convenienza comporta il divieto), che vietava la partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana come reazione alla fine della sovranità temporale del papa, attuata con l'unificazione del paese nel Regno d'Italia, venne abrogato da papa Benedetto XV nel 1919. Nello stesso anno, il prete Luigi Sturzo, insieme ad altri intellettuali cattolici, fondò il Partito Popolare Italiano, di ispirazione cattolica e vocazione interclassista, che si rifaceva alla dottrina sociale della Chiesa, segnando così il ritorno dei cattolici alla vita politica attiva. Gramsci capì con chiarezza il ruolo del nuovo partito: «Il cattolicismo entra cosí in concorrenza, non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo, esso si pone sullo stesso terreno del socialismo, si rivolge alle masse come il socialismo». [11]

Alle elezioni del 1919, le prime con sistema proporzionale nella storia italiana, il Partito Socialista ebbe una forte affermazione e divenne il primo partito del Regno, con il 32,28%. Il secondo partito era il neonato Partito Popolare, con il 20,5%. I tradizionali partiti liberali, democratici e radicali persero la maggioranza in Parlamento. Questo risultato segnò il tramonto dei partiti risorgimentali, che erano in sostanza comitati elettorali di questa o quella frazione di borghesia e l'avvento sulla scena politica dei moderni partiti di massa. Le maggioranze di governo della legislatura, tuttavia, resteranno ancora controllate dai partiti risorgimentali, ma allargate al Partito Popolare e al Partito Socialista Riformista di Bissolati, espulso nel 1912 dal Partito Socialista. I comunisti riuniti intorno a L'Ordine Nuovo indicano con chiarezza come gestire e a cosa finalizzare il successo elettorale: «La rivoluzione comunista non può essere realizzata con un colpo di mano … è necessario che l’avanguardia rivoluzionaria susciti, coi suoi mezzi e i suoi sistemi, le condizioni materiali e spirituali in cui la classe proprietaria non riesca più a governare pacificamente le grandi masse di uomini, ma sia costretta, per la intransigenza dei deputati socialisti controllati e disciplinati dal partito, a interrorire le grandi masse, a colpire ciecamente e a farle rivoltare. Un fine di tal genere può solo essere perseguito oggi attraverso l’azione parlamentare, intesa come azione che tende a immobilizzare il Parlamento, a strappare la maschera democratica dalla faccia equivoca della dittatura borghese e farla vedere in tutto il suo orrore e la sua bruttezza ripugnante». [12] Una partecipazione alle sole istituzioni elettive borghesi, quindi, che impedisca che le masse proletarie «siano illuse, che si faccia loro credere che sia possibile superare la crisi attuale con l’azione parlamentare, con l’azione riformistica. È necessario incrudire il distacco delle classi, è necessario che la borghesia dimostri la sua assoluta incapacità a soddisfare i bisogni delle moltitudini, è necessario che queste si persuadano sperimentalmente che sussiste un dilemma netto e crudo: o la morte per fame, … o uno sforzo eroico, uno sforzo sovrumano degli operai e contadini italiani per creare un ordine proletario … Solo per questi motivi rivoluzionari l’avanguardia cosciente del proletariato italiano è scesa nella lizza elettorale, si è solidamente piantata nella fiera parlamentare. Non per un’illusione democratica, non per un intenerimento riformista: per creare le condizioni del trionfo del proletariato, per assicurare la buona riuscita dello sforzo rivoluzionario che è diretto a instaurare la dittatura proletaria incarnantesi nel sistema dei Consigli, fuori e contro il Parlamento». [13]

Il Partito Socialista, tuttavia, non risponderà alle sollecitazioni dei comunisti de L'Ordine Nuovo, dimostrandosi incapace di elaborare una tattica efficace e di sfruttare adeguatamente il successo elettorale a vantaggio del proletariato. Anziché sviluppare la lotta parlamentare nel senso inteso da Lenin e Gramsci, il Partito Socialista continuerà a dibattersi tra rivoluzionarismo a parole e “cretinismo parlamentare” [14] nei fatti.

La sostanziale indecisione del Partito Socialista, l'aperta collaborazione dei suoi dirigenti riformisti con il governo e il nemico di classe, il moderatismo e l'inerzia dei vertici della CGL avevano intanto esasperato la classe operaia. All’inizio di agosto gli operai della Fiat Centro rimossero la vecchia Commissione Interna e ne elessero una completamente rinnovata, composta di elementi operai avanzati, in un gesto di contrapposizione alla dirigenza della CGL: è il primo passo verso la creazione dei Consigli di Fabbrica.

La Confederazione dell'Industria, che intanto sta organizzando la revanche, cerca lo scontro con la classe operaia e intende vincerlo con ogni mezzo e definitivamente. Per questo, a scopo provocatorio, rifiuta di discutere di qualsiasi aumento salariale.

Il 22 marzo 1920, all'entrata in vigore dell'ora legale, la Commissione Interna della FIAT Industrie Metallurgiche chiede che l'inizio della giornata lavorativa sia posticipato di un'ora. Al rifiuto della proprietà, gli operai spostano indietro le lancette dell'orologio di loro iniziativa e, per rappresaglia, la direzione dello stabilimento licenzia tre membri della Commissione Interna ed esige la non eleggibilità per un anno di sei operai, ledendo provocatoriamente “i diritti civili proletari” e l'autonomia decisionale della classe operaia al proprio interno. Le lancette sono solo un pretesto: lo scontro, in realtà, verte sui poteri e sul ruolo delle commissioni interne, trasformate in Consigli di Fabbrica e l'intento è quello di piegare gli operai,eliminandone l'autonomia di classe e gli istituti in cui essa si incarna.

In risposta, il 29 marzo, viene proclamato uno sciopero di solidarietà (passerà alla storia come “sciopero delle lancette”). Il 14 aprile, la lotta si estende a tutto il Piemonte, trasformandosi in sciopero generale, con il coinvolgimento  di lavoratori di altre categorie. La direzione del Partito Socialista e i vertici della CGL respingono, tuttavia, la richiesta del movimento dei consigli di fabbrica e del gruppo riunito intorno a “L'Ordine Nuovo” di estendere la lotta a tutte le categorie e a tutto il territorio nazionale, portandola ad uno sbocco rivoluzionario. Senza l'appoggio del Partito Socialista e sotto minaccia di intervento di 50.000 militari, inviati dal governo a presidiare la città, gli operai il 24 aprile posero fine allo sciopero senza avere ottenuto nulla, uscendo sconfitti dal confronto. Gramsci commenterà così il risultato dello scontro: «La classe operaia torinese è stata sconfitta e non poteva che essere sconfitta. La classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta; essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto perché l’iniziativa della guerra delle classi appartiene ancora ai capitalisti e al potere dello Stato borghese … La vasta offensiva capitalistica fu minuziosamente preparata senza che lo “stato maggiore” della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell’organizzazione divenne una condizione della lotta, un’arma tremenda in mano agli industriali e al potere di Stato, una fonte di debolezza per i dirigenti locali della sezione metallurgica. Gli industriali condussero l’azione con estrema abilità. Gli industriali sono divisi tra loro per il profitto, sono divisi tra loro per la concorrenza economica e politica, ma di fronte alla classe operaia essi sono un blocco d’acciaio ... ». [15] Gli operai hanno subito un duro colpo, ma non abbassano la testa: «La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l’unità proletaria … Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, per impostare un piano organico di rinnovazione dell’apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi e spinga i sindacati nel campo di lotta della III Internazionale Comunista». [16]

A seguito delle manifestazioni proletarie in occasione del 1° Maggio, duramente represse dalla Guardia Regia e di un nuovo sciopero contro l'aumento del prezzo del pane, il 9 giugno 1920, il primo ministro Nitti si dimette e il re conferisce incarico all'ottantenne Giovanni Giolitti di formare il nuovo governo.

Il 18 giugno 1920, la FIOM inoltra alla Federazione degli Industriali Meccanici e Metallurgici una richiesta di adeguamento salariale all'aumentato costo della vita, seguita in questo dai sindacati delle altre categorie operaie. Gli industriali rispondono con un netto rifiuto e il 13 agosto rompono le trattative. La FIOM, a questo punto, decide di adottare la tattica dello sciopero bianco: rallentamento della produzione e dei tempi, astensione dal cottimo e applicazione rigorosa delle norme di sicurezza sul lavoro, senza ricorrere al sabotaggio. Il risultato è un forte calo della produzione.

Decisi a condurre lo scontro fino in fondo, gli industriali prendono le loro contromisure. Il 30 agosto 1920 le Officine Romeo & C. attuano la serrata. Lo stesso giorno, gli operai rispondono con l'occupazione armata delle fabbriche metallurgiche e meccaniche torinesi. Il 31 agosto, Confindustria proclama la serrata nazionale. A questo punto, l'occupazione si estende rapidamente da Torino alle fabbriche di Milano, Genova, Firenze, Bologna, Roma e Napoli, trovando la solidarietà spontanea dei lavoratori di altre categorie, soprattutto autoferrotranvieri, portuali, braccianti e salariati agricoli fissi. Nelle fabbriche occupate, gli operai assumono il controllo della produzione, costituiscono i primi nuclei della Guardia Rossa, incaricata di difendere gli stabilimenti occupati e pronta, se necessario, allo scontro armato con l'esercito, iniziano a produrre armi per il proseguimento della lotta.

Il governo adotta una linea di mediazione tra industriali e operai che mantenga il conflitto su un piano puramente sindacale, evitando lo scontro armato e puntando al logoramento del movimento di lotta, grazie anche alla collaborazione dei vertici della CGL, in maggioranza riformisti.

Intanto, il Partito Socialista e la CGL si trovavano a dovere decidere come e dove condurre un movimento che, nei fatti, aveva dimostrato di essere ben più avanzato di coloro che avrebbero dovuto dirigerlo. Furono convocati a Milano gli Stati Generali del Proletariato, dal 9 all'11 settembre. 

Il 9 settembre, il Comitato Direttivo della CGL discusse la questione della proclamazione dello sciopero generale insurrezionale. La maggioranza dei dirigenti sindacali, riformista, contraria a questa ipotesi, propose subdolamente le proprie dimissioni in blocco e il passaggio delle funzioni dirigenti a elementi orientati in senso rivoluzionario, se disposti ad accettarne la responsabilità. La frazione comunista, qui rappresentata da Togliatti, non cadde nella trappola, capendone lo scopo: provocare l'iniziativa rivoluzionaria, isolarla e sabotarla, lasciandola schiacciare militarmente, quindi accusare i dirigenti rivoluzionari di irresponsabilità e avventurismo, additandoli alle masse come responsabili della sconfitta. In effetti, la speranza di successo di un tentativo insurrezionale poteva essere garantita solo da una presenza organizzata diffusa e coordinata a livello nazionale, che la frazione comunista all'interno del PSI non aveva ancora. La proposta di dimissioni fu reiterata nella riunione congiunta del Direttivo CGL con la segreteria del PSI, tenutasi il 10 settembre, dove quest'ultima, pilatescamente, si rimise alle decisioni del Consiglio Nazionale CGL che si sarebbe riunito il giorno successivo.

Al Consiglio Nazionale si confrontarono, quindi, due mozioni: una che prevedeva di demandare al Partito Socialista la direzione del movimento per guidarlo ad uno sbocco rivoluzionario per la realizzazione del programma massimo socialista e una seconda mozione, proposta dalla segreteria della CGL, che prevedeva solo l'obiettivo immediato dell'ottenimento di aumenti salariali e del riconoscimento da parte dei padroni del controllo sindacale in azienda. Prevalse a larga maggioranza quest'ultima mozione, sancendo la rinuncia a trasformare le occupazioni delle fabbriche in rivoluzione proletaria. Il Partito Socialista, in base al Patto d'Alleanza con la CGL, firmato nel 1918, avrebbe ancora potuto assumere d'autorità la direzione del movimento, ma rinunciò ad esercitare tale facoltà per bocca dell'allora segretario, Egidio Gennari, ponendosi così di fatto al di fuori della lotta e dei giochi.

Constatato l'abbandono di ogni prospettiva rivoluzionaria dal parte del sindacato e del Partito Socialista, il primo ministro Giolitti ebbe buon gioco nella sua attività di mediazione e, il 19 settembre 1920, fu siglato un accordo preventivo tra CGL e Confindustria, che prevedeva aumenti salariali e miglioramenti normativi in tema di ferie e licenziamenti in cambio della cessazione dell'occupazione delle fabbriche e della ripresa della produzione, impegnando il governo a redigere un disegno di legge sul controllo operaio che, per altro, non fu mai predisposto. Il concordato definitivo fu firmato a Milano il 1 ottobre 1920, dopo che gli stabilimenti occupati erano stati restituiti ai padroni.

Se le lotte degli operai furono centrali nel Biennio Rosso, non furono certo le uniche grandi agitazioni del periodo. Nelle zone agricole del paese, anche nel Sud, vi furono estesi episodi di occupazione delle terre da parte dei braccianti e dei salariati agricoli fissi e scontri violenti con i proprietari terrieri, che sempre più spesso si avvalevano delle camicie nere fasciste per intimidire e reprimere i proletari rurali. Le agitazioni coinvolsero addirittura l'esercito, spesso inviato ad affiancare la Guardia Regia nell'opera di deterrenza e repressione. Si registrarono parecchi casi di solidarietà dei militari di truppa con gli scioperanti. Ad Ancona, i militari dell'11° Reggimento Bersaglieri, nella notte del 25 giugno, insorsero contro l'invio di truppe in Albania, predisposto in attuazione del Patto di Londra, disarmando e facendo prigionieri gli ufficiali. Ne seguì una serie di scontri con la Guardia Regia e i Carabinieri, inviati a sedare la rivolta. I lavoratori di Ancona insorsero a fianco dei bersaglieri e, ben presto gli scontri si estesero a tutte le Marche e all'Umbria. Mentre i ferrovieri bloccavano le linee ferroviarie, a Milano veniva proclamato uno sciopero di solidarietà di due giorni e, a Roma, lo sciopero generale ad oltranza, nonostante il parere contrario della CGL. Per sedare la rivolta, il governo decise di impiegare la Marina Militare. Il 28 giugno, dopo il bombardamento navale della città, la rivolta fu sedata. Ciononostante, l'insurrezione dei bersaglieri contribuì al ritiro delle forze armate italiane dall'Albania e alla firma del Trattato di Tirana.

La dura sconfitta politica con cui si chiuse il Biennio Rosso verrà, anni dopo, analizzata da Gramsci: «Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista». [17]

La fondazione del Partito Comunista d'Italia

Come si vede dalla narrazione storica degli eventi, la spinta ideale che la Rivoluzione d'Ottobre impresse al movimento operaio italiano si tradusse sì in un aumento d'intensità della lotta di classe, ma pose anche in luce tutta la debolezza e l'impreparazione del partito operaio, così come era strutturato e concepito a quel tempo. Dalla vittoria della rivoluzione in Russia e, parallelamente, dalla sconfitta del movimento operaio in Italia, così come in Ungheria, in Baviera, in Germania e in Polonia, il marxismo rivoluzionario italiano trae una lezione determinante: la rottura totale con l'opportunismo e il riformismo della socialdemocrazia, che frenano e sabotano la rivoluzione proletaria, è precondizione della vittoria della rivoluzione stessa. Un'altra verità emerge dall'esperienza vittoriosa dell'Ottobre Rosso: rompere con la socialdemocrazia è necessario, ma non sufficiente; per vincere è indispensabile che l'avanguardia di classe si organizzi in un partito di tipo nuovo, diverso dai vecchi partiti operai, un partito fortemente centralizzato, reso compatto da una ferrea disciplina, liberamente e coscientemente condivisa e da una verticalità di tipo militare, un partito di quadri rivoluzionari di professione che abbia, però, un forte collegamento con le masse; un partito, infine, che sia in grado di elaborare una strategia efficace e di porre alle masse obiettivi tattici concreti come altrettante tappe del percorso rivoluzionario.

Questa esigenza, che scaturisce direttamente dall'esempio dell'Ottobre Rosso e che sta alla base dell'autocritica gramsciana su come il movimento dell'occupazione delle fabbriche venne gestito anche dalle componenti comuniste in seno al PSI, è senza dubbio l'elemento catalizzatore dell'unificazione delle diverse anime del comunismo italiano in un'unica organizzazione, nonostante le differenze di concezioni e tattiche che le caratterizzavano. Questo processo di separazione e unificazione non è certo immediato, né privo di scontri interni, anche drammatici ed ha, come protagonisti di maggiore levatura politica, le figure di Amadeo Bordiga , Antonio Gramsci e il loro principale avversario all'interno del PSI, il leader massimalista, Giacinto Menotti Serrati. Tuttavia, oltre ai Comunisti-astensionisti di Bordiga, al gruppo “Educazione Comunista” di Gramsci e ai Comunisti Unitari di Serrati, il fronte degli “intransigenti” si presenta estremamente variegato, comprendendo anche i Comunisti-elezionisti (Togliatti, Tasca, Terracini), il gruppo operaista radicale milanese (Repossi, Fortichiari) e un raggruppamento, guidato da Anselmo Marabini, più genericamente massimalista di sinistra. Già negli ultimi due anni di guerra queste componenti erano accomunate dalla volontà di smuovere il PSI dalla posizione ambigua, assunta con la parola d'ordine “né aderire, né sabotare”, per aderire all'appello leniniano di trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, come era stato fatto in Russia. Dopo la guerra, il punto in comune diventa la volontà di aderire all'Internazionale Comunista, di divenire parte della deflagrazione rivoluzionaria mondiale, rompendo con la prassi dell'ormai defunta II Internazionale. La differenziazione delle posizioni tra le varie anime incomincia a sfumare in un processo, contraddittorio, di costituzione di una vera e propria frazione. Mentre rimangono nette le differenze di concezione del partito, dello stato e della tattica rivoluzionaria tra Bordiga e Gramsci, le altre componenti finiranno per polarizzarsi intorno alle riviste “Il Soviet”, diretto da Bordiga e “L'Ordine Nuovo”, diretto da Gramsci. La questione dirimente è il distacco dal riformismo, come chiede l'Internazionale Comunista. Poiché i Comunisti Unitari sono contrari all'espulsione di Turati e dei riformisti, la rottura con Serrati diviene inevitabile. Anzi, Serrati diventerà il principale bersaglio delle critiche della costituenda frazione comunista. A questo punto, occorre rompere non solo con la destra, ma anche con il centro del partito. L'asprezza di questo scontro con i massimalisti unitari, di cui Bordiga è senza dubbio il più implacabile animatore, ha dei connotati rigidamente ideologici che vanno ben al di là delle richieste, più tattiche e politiche, della III Internazionale e faranno dire a Togliatti: “La scissione di Livorno fu, essenzialmente e in prevalenza, un atto di lotta contro il centrismo … Noi combattevamo a fondo Turati e Modigliani, ma Serrati noi lo odiavamo … L'ostacolo principale non erano i riformisti, era il centrismo massimalista”. [18] Se Lenin, un anno dopo, esorterà i comunisti italiani a riunirsi con i massimalisti terzinternazionalisti, il nuovo partito mostrerà una forte resistenza ad adeguarsi ad un atteggiamento diverso; questo spiega sia il grande ascendente di Bordiga su tutto il partito, in particolare sui giovani, sia la difficoltà con cui Gramsci riuscirà a fare accettare la tattica del fronte unico, approvata nel 1923 dal Komintern. La polemica con il PSI sarà talmente profonda, nei primi anni del PCd'I, da portare addirittura i massimalisti che vi confluiranno dal 1922 al 1924 a fare profonda autocritica, rinnegando di fatto il loro stesso passato in quel partito, ritenuto responsabile della sconfitta del “biennio rosso”. Persino Serrati, ormai membro del PCd'I, poco prima di morire definirà la posizione, da lui assunta a Livorno, come “il solo grande errore della vita: quello di avere autorizzato con le capacità e la buona fede un movimento che speravo di unità proletaria rivoluzionaria e che nascondeva di tutto, invece, tranne che del rivoluzionarismo”. [19]

La frazione comunista si unifica il 15 ottobre a Milano, dopo che Bordiga ha rinunciato alla pregiudiziale astensionista e accettato la richiesta di Gramsci di stendere una piattaforma comune. Viene pubblicato un manifesto-programma, che è la dottrinale traduzione dei deliberati del II Congresso del Komintern, in quello stile rigido e cautelativo, tipico di Bordiga. Vengono sottolineati i concetti di disciplina, subordinazione al Comitato Centrale e centralismo, epurato però dell'aggettivo “democratico”, cioè dell'elezione degli organismi dirigenti da parte della base (prende forma il concetto bordighiano di “centralismo organico”). Nulla viene detto circa i rapporti del partito con la classe e le masse, la democrazia consiliare come forma della dittatura proletaria, l'organizzazione per cellule (infatti, queste non verranno costituite). Anche se le sue posizioni estremiste e la sua rigidità dottrinaria erano state ampiamente criticate da Lenin, soprattutto ne “L'Estremismo, malattia infantile del Comunismo”, è Bordiga il capo, l'ispiratore e l'organizzatore della frazione, ruolo che anche Gramsci gli riconosce. La Federazione Giovanile è con lui, la propaganda è nelle sue mani, ma è l'azione metodica e costante degli ordinovisti nelle fabbriche che porterà al futuro partito i primi nuclei operai autentici. Al Convegno di Imola (28 novembre 1920), dove compiutamente si costituisce la frazione comunista, si giunge immediatamente dopo la conclusione di un'importante assemblea dell'organizzazione torinese del PSI, dove si crea la saldatura con i comunisti-astensionisti. Il gruppo de “L'Ordine Nuovo”, Gramsci per primo, ha deciso: senza Bordiga e gli astensionisti il partito comunista non si può fare e a questa convergenza devono essere subordinate tutte le discussioni sulle differenze tra i due gruppi. La mozione approvata a Torino non sancisce soltanto l'unificazione dei gruppi comunisti al segno della rottura con il “centrismo”, ma rappresenta lo sbocco, analitico e programmatico, del movimento rivoluzionario nel periodo del “biennio rosso”. Si definisce lo spartiacque tra i comunisti e i socialdemocratici, individuati in “coloro che pensano sia possibile effettuare seriamente il trapasso dal regime capitalistico al regime comunista integrale mediante coalizione con i ceti borghesi e prima, quindi, della conquista del potere politico da parte del proletariato”, [20] si ribadiscono i Consigli di Fabbrica come istituzione sovietica della classe operaia italiana, si delinea il processo di costruzione del Partito Comunista come un processo di conquista dei lavoratori che, a partire dalle fabbriche, si estenda al sindacato, operando una netta distinzione rispetto agli anarchici, si prospettano i “circoli educativi” come sedi naturali dei gruppi comunisti e dei Commissariati di Zona dei Consigli di Fabbrica. Insomma, la mozione rispecchia il programma de “L'Ordine Nuovo”. Di tutto ciò, nella piattaforma che esce dal Convegno di Imola, resterà unicamente la spinta anticentrista e la necessità di fare presto, poiché la sconfitta del “biennio rosso” ha rivelato quanto tempo sia già stato perso prima di riuscire ad organizzare le forze rivoluzionarie, mentre il resto verrà sacrificato in nome dell'unità con Bordiga, che, per'altro, apprezzerà molto il sostegno offertogli da Gramsci in questa occasione. Che si vada verso un periodo di esperienza socialdemocratica di accordo tra socialisti e partiti borghesi per la gestione della crisi, come erroneamente pensa Bordiga, oppure verso uno sbocco rivoluzionario, come ritengono in molti, oppure ancora verso lo scatenarsi di una tremenda reazione borghese, come la III Internazionale e Gramsci incominciano ad intuire, è comunque indispensabile raggruppare le forze rivoluzionarie per dotare il proletariato di quella “unità di combattimento” che era mancata nel “biennio rosso”. Il Convegno elegge anche il Comitato Centrale della frazione, dove sono rappresentate tutte le componenti, con preminenza di quella bordighista. Del CC fa parte anche Polano, segretario generale della FGSI. A questo punto, i giochi sono fatti, il nuovo partito comunista è praticamente configurato ancora prima del Congresso di Livorno. In qualcuno resta aperta ancora la speranza di potere ottenere la maggioranza dei voti all'imminente XVII Congresso del PSI, nella convinzione che le posizioni rivoluzionarie siano maggioritarie sia nel partito che nella classe. La storia dimostrerà poi che così non era, ma ciò sarebbe stato comunque ininfluente in quel momento: da destra o da sinistra, di minoranza o di maggioranza, la scissione era ormai un dato di fatto.

Al XVII Congresso del PSI, che si tiene al Teatro Goldoni di Livorno dal 13 al 21 gennaio 1921, lo scontro, soprattutto con i centristi, che pure ribadiscono l'adesione alla III Internazionale e l'accettazione dei 21 punti, rivendicando però autonomia nei tempi e nei modi della loro attuazione in relazione alle particolari condizioni dell'Italia, è durissimo.

Nonostante l'appoggio totale e inequivocabile delle tesi comuniste da parte del Komintern e dei suoi rappresentanti, Kabakchiev, Rákosi e la Balabanoff, la mozione centrista, ottiene la maggioranza con 98.028 voti, quella riformista ottiene 14.695 voti, mentre quella comunista ne ottiene 58.783. Quando, il 21 gennaio, vengono resi noti i risultati delle votazioni, Bordiga annuncia la scissione e convoca nel vicino Teatro San Marco la riunione dei delegati comunisti, che abbandonano la sala al canto de “L'Internazionale”. La vera sorpresa del Congresso arriva, però, dopo l'uscita dei comunisti dal Teatro Goldoni. Il delegato massimalista Bentivoglio propone una mozione che ribadisce l'adesione del PSI all'Internazionale Comunista, accettandone senza riserva i principi e il metodo e si rivolge “in appello” al suo Comitato Esecutivo come ad un arbitrato, affinché nella sua prossima riunione a Mosca risolva, una volta per tutte e amichevolmente, il contrasto con i comunisti, con l'impegno del PSI di accettarne le decisioni come definitive e inappellabili. Sorprendentemente, la mozione passa all'unanimità, raccogliendo anche i voti dei riformisti e di Turati. Neppure questi ultimi osano mettere in discussione l'autorevolezza del Komintern.

Al Teatro San Marco, in un'assise che è più una manifestazione che un vero e proprio congresso, si formalizza la costituzione del Partito Comunista d'Italia, nel cui CC figurano gli esponenti di maggior spicco di tutte le tendenze del comunismo italiano, sia pure con una netta prevalenza bordighista. Gramsci non prende neppure la parola, a testimonianza di quanta distanza vi sia ancora tra l'autorità e la popolarità di Bordiga rispetto a quella di Gramsci e di Togliatti. Ne esce un gruppo dirigente solo apparentemente coeso, come del resto è tutta la base del partito che, negli anni a venire, si assottiglierà. Il processo di costituzione del nuovo partito si completerà con l'adesione di quasi tutta la FGSI, 35.000 membri su 43.000, schierata anch'essa sulle posizioni di Bordiga. “L'Ordine Nuovo”, ora diretto da Togliatti, diventa l'organo del partito, al quale si affianca, a Trieste, un altro quotidiano comunista, “Il Lavoratore”, diretto prima da Tuntar e poi da Gennari. Lo statuto del partito è imperniato sul concetto di rigorosa disciplina e sulla subordinazione del singolo al collettivo e alle decisioni degli organismi dirigenti; è previsto un periodo di candidatura di sei mesi per i nuovi iscritti, ma tutti i membri sono sottoposti a periodiche revisioni di idoneità; è prevista la radiazione per chiunque sia assente ingiustificato a più di tre assemblee del livello organizzativo di appartenenza; stampa e gioventù sono sotto il controllo del CC, i Comitati Esecutivi locali dipendono direttamente dal Comitato Esecutivo nazionale, organismo collegiale di 5 membri, i segretari delle federazioni locali sono nominati dal CC; organizzazione di base è la sezione territoriale, voluta tale da Bordiga che temeva, sbagliando, che le cellule sui luoghi di lavoro potessero degenerare in entità corporative di tipo sindacale, permeabili ad ideologie non marxiste ancora presenti nel movimento operaio.

Nasce così il Partito Comunista d'Italia, sezione della III Internazionale, per effetto e sotto l'influsso diretto della Rivoluzione d'Ottobre, che anche nel seguito, insieme al progredire della costruzione del socialismo in URSS, eserciterà su di esso una profonda influenza lungo tutta la sua storia. 

Il nuovo partito, tuttavia, non avrà neppure un giorno da poter dedicare alla pacifica costruzione di consensi e adesioni. L'Italia sta per entrare in una fase di guerra civile, trascinata dalla reazione dei capitalisti e degli agrari. Gramsci, nel 1923, difendendo la linea del Komintern del “fronte unico”, porrà in correlazione l'ascesa del fascismo non con la scissione di Livorno in sé, ma con il modo in cui essa avvenne. La scissione fu l'inevitabile prodotto della dinamica, nazionale e internazionale, della storica lotta tra comunismo e socialdemocrazia, ma la consistenza delle forze proletarie che l'azione dei comunisti in quegli anni riesce a portare sul terreno dell'Internazionale Comunista è ancora troppo esigua, insufficiente a fronteggiare la reazione. Questo è il senso dell'autocritica che Gramsci propone al Partito: riconoscere e rimediare alle insufficienze e ai ritardi, accumulati durante il “biennio rosso” procrastinando troppo a lungo la scissione, nella costruzione di una forte frazione comunista e abbandonare l'astrattezza e la dottrinarietà dell'impostazione di Bordiga, che limitò la frazione comunista a “battere sulle questioni formali, di pura logica, di pura coerenza e, dopo non seppe, costituito il nuovo partito, continuare nella specifica missione, che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato”. [21] La drammatica constatazione è però anche motivo di orgoglio: “... travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana … avevamo una consolazione alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di aver previsto matematicamente il cataclisma, quando altri si cullavano nella più beata e idiota delle illusioni. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo la scissione di Livorno: la necessità che si poneva crudamente, nella forma più esasperata, nel dilemma di vita e di morte, cementando le nostre sezioni col sangue dei nostri più devoti militanti; dovemmo trasformare, nell'atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della più atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere. Si riuscì, tuttavia: il partito fu costituito e fortemente costituito; esso è una falange d'acciaio ...”. [22] E questo partito saprà portare avanti le idee luminose della Rivoluzione d'Ottobre negli anni bui della dittatura fascista e della guerra di resistenza, fino alla vittoria sulla reazione.

NOTA CONCLUSIVA: ringraziamo caldamente Paolo Spriano, autore dell'opera, da noi ampiamente citata, “Storia del Partito Comunista Italiano”, Ed. Einaudi, Torino, 1967. 


[1] L'espansione territoriale dell'Italia era già stata segretamente programmata a tavolino con il Patto di Londra del 1915, come contropartita dell'uscita del regno d'Italia dalla Triplice Alleanza, della sua adesione alla Triplice Intesa e dell'entrata in guerra a fianco di Francia, Inghilterra e Russia. Prevedeva un allargamento dei confini italiani ai danni dell'Impero Austro-Ungarico e della Turchia, oltre al consolidamento della supremazia italiana nel Mare Adriatico. Tipico esempio di diplomazia segreta imperialista, il Patto di Londra, come qualsiasi altro accordo imperialista segreto, fu reso pubblico proprio dal governo bolscevico, nato dalla Rivoluzione d'Ottobre.

[2] Giorgio Mortara, La Salute pubblica in Italia durante e dopo la Guerra, G. Laterza & figli, 1925, pp. 28-29, 165, da dati ufficiali del governo italiano

[3] A. Gramsci, Scritti Politici, vol. 3, Appendice, p. 172, La situazione italiana e i compiti del Partito Comunista

[4] V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 41, p. 206, Tesi per il II° Congresso dell'Internazionale Comunista, Condizioni per l'adesione all'Internazionale Comunista, punto 2

[5] Ibidem, punto 7, p.207

[6] Angelo Tasca (1882-1960) sarà espulso dal PCdI nel 1929 per deviazionismo di destra

[7] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 14 agosto 1920

[8] Ibidem

[9] V.I. Lenin,  Opere Complete, vol. 41, pp. 248—254

[10] Il 23 marzo 1919, nella sala dell'Alleanza Industriale in piazza San Sepolcro a Milano, Benito Mussolini aveva costituito i Fasci Italiani di Combattimento

[11] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 1° novembre 1919, I Popolari

[12] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 15 novembre 1919, I rivoluzionari e le elezioni

[13] Ibidem

[14] Il termine fu usato per la prima volta da K. Marx e F. Engels, che lo definirono come «una malattia incurabile, un morbo, le cui sfortunate vittime sono compenetrate dal solenne convincimento che tutto il mondo, la sua storia e il suo futuro siano governati e indirizzati dalla maggioranza dei voti proprio di quell'organo rappresentativo che ha avuto l'onore di averli in qualità di suoi membri». (K. Marx e F. Engels, Opere Complete, II edizione, vol. 8, pag. 92)

[15] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920

[16] Ibidem

[17] A. Gramsci, L'Unità, 1º ottobre 1926, Ancora delle capacità organiche della classe operaia

[18] P. Togliatti, La Nostra Esperienza, “Lo Stato Operaio”, a. V, n. I, gennaio 1931, p. 6

[19] G. Menotti Serrati, Vane difese massimaliste, “L'Unità”, 25 aprile 1926

[20] La mozione è integralmente riportata in un rapporto del Prefetto di Torino del 28 novembre 1920 (ACS, Ministero Interno, Direzione Generale di PS, G. I, b. 63)

[21] A. Gramsci, Contro il pessimismo, “L'Ordine Nuovo”, 15 marzo 1924

[22] Ibidem